Leggendo i giornali, seguendo i commenti in rete, o anche interpellando dirigenti democratici d’ogni tendenza, la posizione di Bersani dopo il glorioso sabato della Fiom sembrerebbe difficile. Imbarazzata, difensiva. Il segretario del Pd è criticato comunque: perché estraneo a quella piazza rossa o perché succube di quella piazza rossa, o perché non sapendo scegliere fra le due posizioni ha finito per scontarle entrambe.
In effetti la sua intervista a Repubblica, bilanciata e con buoni argomenti, appariva debole se confrontata col gioco facile degli altri: il gioco di Vendola che, come prevedeva Europa alla vigilia, s’è presentato alla Fiom come faceva Berlusconi con la Confindustria, dicendo questa gente è la mia gente. Oppure il gioco di Casini, che vuole trarre il massimo profitto dal risucchio a sinistra imposto al laburista Bersani dalle proteste operaie.
Vendola e Casini: due alleati chiave della strategia bersaniana. Con i quali si possono fare pranzi e patti, basta sapere che pranzi e patti non sospendono le regole della concorrenza.
Eppure non sarebbe difficile per Bersani e per il Pd sottrarsi alla tenaglia. Un po’ facendo come hanno fatto ieri, cioè entrando nell’agenda del governo sul cruciale tema fiscale. Ma soprattutto facendo il proprio mestiere di partito, al quale è richiesto non di dare valutazioni sulle azioni altrui, bensì di offrire una soluzione valida all’unico assillo che accomuna Cgil e Cisl, Vendola e Casini, Marchionne e Landini, Marcegaglia e Camusso: l’assenza dell’interlocutore essenziale. L’assenza di un vero governo.
Questo è lo snodo cruciale di questa stagione italiana, che rischia di sfuggire nei rivoli delle polemiche fra Bonanni ed Epifani, Bersani e Casini, Vendola e Boccia. La riforma del contratto, i due livelli, il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali, gli aiuti alle imprese, la defiscalizzazione del lavoro: su ognuno di questi temi, ognuno degli attori sociali ha una sua posizione, ha richieste da fare e interessi da difendere. Tutti però sanno che non avranno alcunché, per il semplice motivo che la sponda politica sta smottando: non c’è un vero governo che si proponga come arbitro, mediatore o proponente; non c’è una vera maggioranza parlamentare per le riforme; non c’è una leadership in grado di assumere una posizione netta, costruire blocchi, sostenere un conflitto.
Agli occhi delle parti sociali il governo ha tre volti. Quello arcigno di Tremonti, irrangiungibile, chiuso nel suo treno blindato di tagli orizzontali. Quello di Sacconi, inabile a fare il proprio mestiere e capace ormai solo di trascinare una ideologica campagna per la divisione sindacale. E infine quello pallido dei ministri, interlocutori privi di ogni potere, ridotti a elemosinare, personaggi impossibilitati a tener fede a qualsiasi impegno assunto nei propri ambiti.
Questo è l’enorme problema di Bonanni e Angeletti, trafitti in effige a San Giovanni: hanno scommesso sulle velleità riformiste di un centrodestra che invece si squaglia. È il problema di Marcegaglia, che nel collasso berlusconiano ha rischiato di finire travolta personalmente. È il problema della Cgil, che conosce i rischi di far crescere una protesta senza poterle dare sbocco.
Di più, lo scioglimento del governo, la fuga di Berlusconi da promesse e responsabilità, ricade su ogni frammento del mondo produttivo: ne abbiamo raccontato i rimbalzi sugli artigiani, sui commercianti, seguiamo l’ansia delle partite Iva bastonate dalla crisi senza cuscinetti di protezione.
Il mondo del lavoro nel suo insieme al quale Bersani giustamente dice da tempo di volersi rivolgere è lì davanti a lui, unito nel disorientamento che può evolvere in rabbia, e già produce fortissima disaffezione.
Non c’è una soluzione miracolistica da offrire. Bersani ieri rivendicava l’indispensabilità del Pd per ogni soluzione. Giusto. Ma a Casini, a Vendola, a Fini va fatta pesare soprattutto questa terribile urgenza. Nell’agenda di una alternativa d’emergenza a Berlusconi non può più esserci solamente la riforma elettorale, come è previsto fin qui nella linea dei democratici (qualcosa del genere sta dicendo D’Alema, se ben capiamo).
Da piazza San Giovanni a Roma a piazza Duomo a Milano, gli italiani d’ogni colore almeno capirebbero (e forse sosterrebbero) una proposta alta, solenne, che si impegnasse a restituire un governo degno di questo nome a un paese che ne ha un disperato bisogno. Tirarsi fuori, o sabotare, sarebbe veramente difficile per chiunque.